Non basta conquistare anche l’ultimo gradino

Non basta conquistare anche l’ultimo gradino

C’è sempre qualcuno, nonostante sia ormai lontano l’anno dell’handicappato, che ancora osa gridare per le vie di città sempre più disattente e indifferenti «Insieme senza barriere» e, speranzoso!, prova a pungolare la pubblica attenzione con tavole rotonde, mostre fotografiche, spettacoli, sfilate di marjorettes.

Si ripetono i discorsi, si contano le nuove rughe dovute al cumulo aggiunto delle umiliazioni, si «scontano» i medesimi risultati: uno spazio nelle cronache cittadine che diventa presto carta straccia.

Intanto il sasso, che qualcuno ha voluto lanciare, precipita nel fondo e in superficie non resta nemmeno una lieve increspatura. Allora non serve nulla il rammarico, la rabbia o il senso di impotenza. Tanto vale chiedersi, una volta per tutte, se davvero le
barriere che dividono ed escludono sono quelle che ci dicono e cioè quei limiti architettonici
, imputabili ad ambienti stretti, scale e pavimenti sdrucciolevoli, solitamente classificati in barriere di accesso, di larghezza, di altezza, di sottofondo e di distanza.

In realtà rimane il sospetto che, quand’anche l’ultimo gradino delle nostre strutture architettoniche dovesse cadere sotto il colpo del piccone egualitario, l’uomo si scoprirebbe ancora una volta solo, afflitto, inappagato, disatteso e quindi emarginato. E non basta nemmeno dire che è un generico pregiudizio, sic et simpliciter, il veleno sociale che ci divide ed esclude, poiché oggi ogni uomo, indistintamente, vive la sua crisi che è fisiologica, psicologica, economica, ecologica, e chi non ha nemmeno il pretesto di una gruccia, almeno per credere oggettivata la propria infelicità, spesso si disorienta, non sa cosa gli succede, cade, nella depressione, si esaurisce nella nevrosi.

E questo semplicemente perché «abbiamo ridotto la realtà a ciò che si può misurarequantificare e verificare. Abbiamo negato i valori qualitativi, spirituali e metafisici. Siamo giunti ad un dualismo che ci pervade totalmente: le nostre menti separate dai nostri corpi e i nostri corpi disgiunti dal mondo circostante. Abbiamo magnificato i concetti di progresso materiale, di efficienza e di specializzazione sopra qualsiasi altro valore». Lo dice leremy Rifkin nel suo libro «ENTROPIA, una nuova concezione del mondo». (1)

Così, come in passato sull’altare del produttivismo sono state sacrificare le civiltà indigene che non avevano conosciuto i ritmi industriali, oggi si squalificano a vita tutti quegli individui che per limiti fisici o psichici, non possono sostenere i ritmi imposti dalla società, cioè da quella società che, costruita sull’eredità lasciata da Bacone, Cartesio, Newton, Locke e Smith, i divulgatori della concezione meccanicistica del mondo, ha interpretato e organizzato la vita dell`uomo secondo criteri esclusivamente materialisti.

Che salvezza dunque può aspettarsi l’handicappato?

Una sola speranza: salvarsi insieme all’UOMO, cioè abbandonare il modello meccanicistico a cui si è conformata l’organizzazione sociale odierna, trasformando e rivoluzionando, radicalmente, la qualità della vita.

Pura utopia? No, dice J. Rifkin, una necessità, una sola speranza prima della catastrofe: «L’unica speranza di sopravvivere come specie che resta all’umanità, è di abbandonare l’aggressione nei confronti del pianeta e di cercare di adattarsi all’ordine naturale».

Perciò se l’uomo «si è sempre più convinto di non dipendere più dalla natura», per il fatto che utilizzando, anzi dissipando, l’energia non rinnovabile «ha potuto spegnere e accendere il sole a suo piacimento», l’attuale crisi energetica, imponendogli
inevitabilmente l’organizzazione di una società a bassa energia, gli mostra la limitatezza e la transitorietà del mondo, la limitatezza e la transitorietà dell’UOMO.

«Solo quando impareremo ad accettare la natura finita del mondo, potremo cominciare a renderci conto di quanto sia prezioso in realtà questo dono chiamato TERRA. Solo allora ogni evento assumerà un significato particolare e la vita stessa diventerà qualcosa di degno da apprezzare e da conservare».

Solo allora l’UOMO potrà, finalmente, riconoscersi nel portatore di handicap e, riconoscendo la sua debolezza, saprà fare dell’INlTEGRAZIONE non un miraggio forsennatamente inseguito, ma la base di un sistema di vita. Il suo stile di vita.

(1) L’ENTROPIA è «la seconda legge della termodinamica, quella che asserisce che la materia e l’energia possono essere trasformate in una sola direzione, cioè da uno stato utilizzabile a uno stato inutilizzabile, da uno stato di ordine a uno stato di
disordine.

Rita Bigi Falcinelli

 1984 – Non basta conquistare anche l’ultimo gradino (5.31 MB)